Eugenio Anemone
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Pretendere quanto ti spetta è un tuo preciso dovere.
Hai appena finito il tuo concerto con la tua band nel locale del tizio con cui hai preso accordi settimane, mesi prima. Sei alle chiacchiere finali con il gestore, pensando già alla riscossione del compenso pattuito. La scena più o meno la conosciamo tutti, il gestore del locale sfoggia il suo sorriso alla Giorgio Mastrota e inizia: «Veramente bravi! Siete davvero forti, suonate bene, il vostro genere mi piace molto e dovete assolutamente tornare per un’altra serata». E fin qui tutto bene. Ma poi continua: «Anche perché, sai, la gente non era poi molta, i presenti non erano molto propensi al consumo e gli incassi non sono stati molto corposi…» E parte tutta una serie di papocchioni verbali e frasi fatte tipo “la prossima volta andrà sicuramente meglio, la pubblicizzeremo di più, stavolta non siamo riusciti a farlo adeguatamente” e ancora “qui, sai, ci suona spesso quello, questo e codesto…” e ti fa tutta una serie di nomi (e tu che scoglionandoti sempre di più hai già capito dove andrà a parare). E appunto per finire, passando con l’espressione facciale da Mastrota all’ultimo Mauro Repetto, ti dice: «Dài, vienimi incontro!» A questo punto - momento in cui dovresti avere sempre la lucidità di scattarti un selfie - sei tu che monti sul viso un’espressione diversa; probabilmente non entusiasta come pochi minuti prima: sembri Pasquale Ametrano rimasto senza borchie. Ed è qui che chi dovrebbe pagarti afferma ciò che seppellisce l’ultimo frammento di speranza che tenacemente albergava nel tuo cuore: «Dài, chi fa musica suona soprattutto per passione!» Allora, chiariamo un po’ delle bestialità appena elencate, in ordine sparso. - Poche perverse passioni spingerebbero qualcuno ad intavolare una discussione del genere con un localaro improvvisato. - Se ci siamo dimostrati veramente bravi, davvero forti e il nostro genere piace a chi ci ha ingaggiati tanto da volerci ingaggiare di nuovo, significa che abbiamo adempiuto al nostro dovere e che quindi, avendo fatto il nostro lavoro, meritiamo di essere pagati. - Di chi altri suona nel locale, bello o schifoso che sia, me ne frega il giusto, se non mi paghi o se mi paghi meno del pre-pattuito (che di solito, non giriamoci intorno, non è mai molto). - Se la serata non è andata bene a livello di incassi, io non ne ho colpa. Mettiamocelo in testa una volta per tutte: per quanto i tempi cambino, noi facciamo un altro lavoro! A meno che non abbiamo accettato a monte di essere pagati a percentuale - cosa che sconsiglio a meno che non ci siano i giusti presupposti che ognuno poi valuta in base ai propri criteri di convenienza - dobbiamo pretendere il rispetto degli accordi così come lo pretendono i fornitori della birra, del pane, degli alcolici e di tutte le bevande, il proprietario delle mura e via discorrendo. Caro gestore, se non vendi tutta la birra che hai comprato, non paghi il fornitore per ciò che ti è rimasto nel fusto? Se alla fine del mese non hai raggiunto gli standard dei tuoi gusti non paghi l’affitto? Non sarà che a fare gli imprenditori così siamo capaci un po’ tutti? - E insomma, se la serata è andata male stavolta perché ti dimostri incapace di rendere alla clientela un servizio appetibile, perché dovrebbe andar bene la volta successiva? Perché devo pagare io il prezzo della tua incapacità? Che motivo ho di tenermiti buono e quindi di ritornare qui a rischiare di lavorare gratis un’altra volta? No, non funziona così. Il gestore del locale non è il nostro manager o il nostro produttore e, dunque, la nostra performance non ha nulla a che spartire con il numero dei clienti entrati nel locale e i relativi consumi in occasione del nostro concerto. Se dobbiamo suonare in un locale per farci pagare dai nostri amici e parenti, tanto vale che il concerto lo organizziamo a casa nostra o in sala prove. Intrappolandoci in certi meccanismi, dalla nostra attività in certi locali non otterremo mai nulla di soddisfacente. I ristoratori si occupino di ristorazione; i musicisti si occupino di musica. E ad ognuno le proprie spettanze. Ogni volta che un musicista rinuncia anche solo ad una minima parte del proprio cachet, da qualche parte del mondo un artista schiatta; Antonio Razzi fa un passo in più verso la Presidenza del Consiglio; Povia guadagna un follower; e, apice della tragedia, i Modà scrivono un’altra canzone. Abbiamo tutti una grande responsabilità!
Improntare un repertorio su brani editi danneggia chi propone musica originale?
Al centro di tutto c’è il fatto che, notoriamente, la maggior parte dei locali preferisce inserire in programmazione più tribute band (o comunque gruppi che propongono musica conosciuta) che gruppi o artisti emergenti. Scrivendo su Google “Le tribute band hanno rotto il cazzo” si apre un piccolo mondo. Piccolo sì, ma pieno di cose: alcune divertenti (quelle ironiche); molte altre (quasi tutte) assurde. Parliamo di alcune cose assurde. Le tribute band tolgono mercato ai progetti di musica originale. Se parliamo di mercato, partendo dal presupposto che questa non è l’analisi di un economista, la prima domanda che mi viene in mente è: due mercati differenti o mercato unico? Nel primo caso ci sarebbe poco da lamentarsi: le tribute band avrebbero come concorrenti solo le altre tribute band. Nel secondo caso, quello del mercato unico, credo che da lamentarsi ci sia ancora meno. Il mercato - continuo a farla breve sempre perché non sto facendo un’analisi scientifica - premia in base alle preferenze; preferenze di quelli che si affacciano sul mercato in qualità di utenti, clienti, acquirenti o, usando un termine più comodo per proseguire, la gente. Se la gente preferisce ascoltare la tribute band dei Modà piuttosto che le vostre canzoni scritte durante le vostre notti insonni, ponetevi qualche domanda sul vostro progetto, analizzate il contesto in cui cercate di promuovervi oppure iniziate a scrivere di giorno e a dormire di notte. Ah, per inciso, vale lo stesso se un locale preferisce la tribute di Vasco Rossi, Ligabue, Bon Jovi, Rolling Stones, Beatles, Doors, De Gregori e chi vi pare. Quello dei Modà era solo un esempio estremo. In sostanza, se la musica che scrivete non piace, non interessa, non muove le masse o non crea nella gente un buon motivo per venirvi a sentire nei locali in cui suonate, non cercate il colpevole troppo lontano da casa vostra o dalla vostra sala prove. Spesso, addirittura, il colpevole semplicemente non c’è. Scegliere di ascoltare una tribute band piuttosto che un gruppo emergente è come scegliere un prodotto contraffatto piuttosto che uno genuino, a parità di prezzo. Questa è bestiale, ma l’ho letta e me la sono sentita dire. Non posso provarlo, ma vi prego di credermi. Giovinotti, se un domani vi dovesse capitare di diventare ricchi e famosi con la vostra musica, vi farebbe così schifo sapere che in giro c’è chi suona le vostre canzoni perché si diverte a farlo e/o perché piacciono alla gente? Avreste lo stesso approccio che avete oggi con le tribute band in generale, con la tribute band di voi stessi? Vi ci vorrei vedere ad andare in giro a dir loro “Siete la contraffazione della nostra musica genuina!” In Italia le tribute band vengono preferite a chi fa musica propria perché la gente è ignorante, non capisce e non esplora nuovi scenari. Eccoci alle solite. Quando non otteniamo i risultati che speravamo o quando il vento o l’acqua sbragano il nostro castello di sabbia, è colpa del sistema, degli italioti e dell’analfabetismo funzionale: la moda ci ha regalato queste espressioni che ci aiutano nella trasformazione da inconsapevoli sfigati a promotori incompresi di cultura. I nuovi scenari sono tanti e ci vengono proposti senza che ne venga fatta esplicita richiesta. La proposta, per essere accettata, deve avere un buon contenuto, una buona presentazione o, meglio ancora, entrambe le cose. E non è facile: questo lo dico perché c’ho sbattuto il grugno e continuo a sbattercelo. Continuo a sbattere il grugno come tanti altri. Tanti altri che continuano a provarci senza stare ad interrogarsi sul perché del successo degli altri. E sì, lo so che tra quelli che hanno avuto successo c’è pure Povia, ma le eccezioni esistono. E le cose brutte anche.
Inizi, cambiamenti e consapevolezze: come cresce un musicista, un cantautore, e come cambiano forma le idee e le convinzioni nel tempo in cui fermenta, matura e si assesta la personalità di un artista.
Che parta con il pianoforte, la chitarra, la tromba, il flauto, le percussioni, qualsiasi strumento o la voce, ognuno di noi inizia aspirando a fare della sua arte il suo mestiere. Nonché la sua ragione e il suo stile di vita. Coloro che approcciano alla musica come un hobby rappresentano una rara eccezione. Nella maggior parte dei casi, la musica finisce per diventare un hobby: in seguito ad uno stato di profonda delusione o, peggio ancora, rassegnazione. Si fanno i conti, ci si rende conto che le entrate non sono sufficienti, si accetta il primo lavoretto che si trova o si investono le proprie capacità in un ambito del tutto differente. E la chitarra inizia a farsi amica la polvere. Per la gioia di parenti e genitori che potranno finalmente dire in giro che l’ “artista” si è deciso a diventare adulto. Non che ci sia nulla di male, per carità: in qualche modo si deve pur campare! Tuttavia il musicista che si riconosce in quello che fa non accetta facilmente di sentirsi dire “trovati un lavoro, la musica è un hobby”. Si troverà sì un lavoro - che magari non avrà attinenza alcuna con la musica -, al quale, però, difficilmente riuscirà a dare il cuore, l’anima, la dedizione: il vero se stesso. Tirerà a campare impegnandosi a conservare il lavoro o a trovarne un altro se il precedente era precario o a termine. Ma conserverà la parte migliore di sé per la sua arte; per i momenti in cui avrà l’opportunità di presentarla, ostentarla, esaurirla e ricrearla. Tra questi artisti c’è chi ce la fa: chi arriva a fare della musica il proprio ed unico lavoro. A vari livelli: dall’insegnante di giorno e live performer la sera al cantautore da sold out e canzoni virali. Io invece sono uno di quelli che non ce l’ha fatta. Suono da quando avevo 8 anni ed ho “studiato” vari strumenti. La mia dimensione l’ho trovata cantando; ho iniziato a cantare che ero già ventenne - tardi rispetto ai grandi talenti. Non sono diventato né uno specialista né un virtuoso, ma ciò che ho imparato mi basta e mi soddisfa. Tuttavia, soddisfazione a parte, oggi dopo parecchi anni di esperienza, non vivo di sola musica. Intendiamoci, non ho alcuna intenzione di smettere ed ho ancora voglia di credere in molte cose. Soprattutto, al di là dei risultati (che si possano ritenere o meno soddisfacenti) penso di aver fatto ancora poco. Da quando ho iniziato ad oggi, però, nel mio rapporto con la musica è cambiato qualcosa: il peso. È un rapporto che oggi vivo con molta più leggerezza. Ho iniziato pretendendo tanto da me stesso e di più da ciò che mi stava intorno. Mi sembrava sempre di non aver fatto abbastanza, vivevo tutto come uno sbaglio e non me lo perdonavo. Poi è arrivato un pensiero, una grezza riflessione che ha rappresentato una specie di punto di rottura: se passati i trent’anni ancora litighi col localaro sulla mezza piotta concordata mesi prima, forse qualcosa lungo il percorso artistico è andato storto. (E pure il localaro non se la passa tanto meglio) È indispensabile saper accettare determinate realtà: non tutti possiamo avere il successo che speravamo; esiste chi è più bravo di me (ne esistono tanti, forse troppi); si può godere molto anche di piccoli successi in piccoli contesti. Ho imparato un po’ a ridere dei miei sbagli, degli insuccessi e dei difetti. Fermo restando che il compenso pattuito va preteso senza sconti. Ci tengo quindi a precisare che non è mia intenzione (non oggi) dare lezioni sulla gestione dei rapporti e degli ingaggi. Personalmente però, arrivato a questo punto, preferisco lasciar vuoto il campo Eventi per un po’ e non accettare serate da minatore in cui, oltre i tuoi sacrosanti strumenti, ti incolli le tue casse, le tue spie, il mixer, la tua borsa dei cavi che pesa centoquindici tonnellate perché nonsisamai, e arrivi al locale con le sospensioni della macchina maciullate; per sentirti dire alla fine della serata che il costo della cena te lo detraggono dal cachet e che visto che c’era poca gente sarebbe pure buon senso, per salvare le future collaborazioni, rinunciare a qualche euro di compenso. Live da quanto-seguito-c’hai? in cui ci si trova a suonare davanti a quattro parenti, tre amici e due sconosciuti sono inutili da vivere e da commentare. Dunque, per quel che mi riguarda, meglio due-tre concerti l’anno ben vissuti. Come un bel San Patrizio: in un pub dalla modesta metratura sì, ma pieno e partecipe. |
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